Siamo al secondo.

Scorcio di Venezia. 30 ottobre 2015.

È tutto quello che scrissi a contorno di questa fotografia scattata a Venezia.

Che ferita che è, Venezia.
Una ferita perché mio fratello ci ha abitato, se n’è innamorato, ci ha gioito, ci ha pianto, l’ha abbandonata. Si è sentito abbandonato da lei.
L’acqua alta non è una condizione che conoscono i turisti, ma chi ci vive sì.

Il dolore nel buttare tutti i mobili di una casa, di non riuscire a dormire perché l’acqua sale e continua a salire e tu sei sdraiato sul letto con gli stivali da pioggia ad attendere che tutto passi no, non si dimentica.

Eppure quando ci sono tornata, nel 2015, Venezia l’avevo perdonata.
La casa era piccola e buia, infilata nel dedalo di sestiere Castello, eppure io dentro ci ho sempre trovato l’amore di una piccola casa che ti voleva accogliere a tutti i costi. Con la sua micro cucina. Il tavolino appoggiato sotto la finestra con i turisti che ti guardavano mentre facevi colazione. Con quel lettone che sembrava riempire tutto lo spazio. A me quella casa piaceva, ma non era possibile continuare a viverci.

Un po’ come quegli amori che finiscono non perché non ci si ami, ma perché è materialmente impossibile stare insieme. Per mille motivi. Idee politiche, orari di lavoro, decisioni etiche inconciliabili, luoghi di appartenenza che si sono sfiorati ma che non sono riusciti a prendersi per mano.

Nel 2015 ero con la mia amica Daria e andammo a vedere il museo di Peggy Guggenheim. Quanta bellezza quell’Empire of Light di Magritte, quanto stupore. Quanta delicatezza trovo nelle gallerie d’arte, e quanto mi piacque l’idea che fosse la sua casa, sul Canal Grande.

A Venezia tutto è magico, una mostra, un negozietto, un paninaro.
Tutto è diverso dal solito, senza auto, col rumore dell’acqua che si infrange sulle strade, dei vaporetti che si muovono lenti nella nebbia di fine ottobre.

La cena in una trattoria tipica, me la ricordo ancora. Era tutto di legno scuro, sembrava di stare nella stiva di una nave. I tavolini per coppie appiccicati e quei crostini col baccalà mantecato, mai digeriti.

E poi l’odore di muffa, di acqua, di libri vecchi e di storia: Venezia tornerò, te lo prometto.

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