Essere ascoltati.

Ravenna, ottobre 2015.

C’è stato un periodo in cui ho fatto l’”insegnante”.
Non nel senso letterale del termine: ero solo una strana figura inserita con un bando che aiutava un ragazzo disabile nelle materie artistiche di un istituto di mosaico.

Seguivo un ragazzino ipoacusico e con un’altra serie di disturbi che non starò a elencarvi e che neanche io ricordo bene: mi ricordo solo che mi ha fatta incazzare e sorridere come mai nella vita. Perché aveva una potenzialità enorme e la buttava per ribellarsi. Perché vederlo soffrire per le dinamiche che si creavano con certi coetanei mi faceva imbizzarrire. Perché sapere che era comunque un adolescente con mille paturnie e non poterlo aiutare come volevo mi frustrava da morire.

I due anni insieme a lui e ai suoi compagni mi hanno insegnato più di quanto immaginassi quando accettai il ruolo.
Gli altri ragazzini della classe sono partiti dal darmi del “lei” a considerarmi una sorella maggiore nel giro di un mese.
Da una parte mi dicevo: ok, quindi il senso di autorità che trasmetto è pari a zero. Dall’altra mi dicevo: beh, però si fidano di me.
Mi raccontavano delle loro cotte, delle loro litigate, di quanto si odiassero l’uno con l’altra, dei genitori inesistenti, delle case in montagna, dei documenti falsi per entrare in discoteca, dei loro sogni, dei loro youtuber preferiti.
Quando mi chiedevano quanti anni avessi lo facevano con un’ingenuità che li avresti abbracciati all’istante.
Avevo solo 27 anni e sembravo già anziana, per loro.

Mi ricordo quando pensai che era una cavolata accettare questo lavoro, seppure per qualche ora a settimana, perché io detestavo gli adolescenti, e più che mai i 14enni, ancora così nel limbo tra l’essere dei bambini e degli spocchiosetti liceali.

Sì, in effetti c’erano delle giornate in cui li avrei davvero defenestrati tutti. Non li sopportavo, non sopportavo i loro stupidissimi e insulsi problemi. Non sopportavo la leggerezza con cui andavano a casa e trovavano il pranzo pronto e io invece avrei mangiato al volo e sarei dovuta andare a fare un altro lavoro per mettere insieme un mezzo stipendio.

Eppure. Mi hanno fatta sentire così bene, così importante, così amata. In un attimo mi sembrava di essere loro amica da sempre.
E in un attimo ho capito una cosa lampante: i ragazzi vogliono solo essere ascoltati.
Niente di più.
Non servono regali, smartphone, viaggi o altro.
Vorrebbero solo dei genitori che li ascoltassero, che non li giudicassero, che non li trattassero da idioti. Ma da adulti.
A me veniva naturale, e mi hanno arricchita.
E spero di aver arricchito anche loro.

Qualcuno lo incontro ancora al mare, e mi saluta con un sorrisone quindi chissà, magari qualcosa di buono l’ho fatto.

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