Quanto ti ho odiata, prima di amarti.

Porta Gaza, Ravenna, gennaio 2016

Vorrei parlarvi di quanto ho odiato Ravenna, prima di amarla.

Di quanto mi sembrasse inutile e stretta e soffocante, a 15 anni.
Di come la sognavo piangendo, a 22.
Di come ci sono tornata felice, a 24.
Di quanto ci stia bene, in fondo, a 33.

Mi ricordo quando il mio massimo divertimento era salire e scendere dalle statue dei leoni (con un Garibaldi che mi guardava perplesso) davanti al liceo classico.
Mi ricordo quando mangiavo i biscotti di cioccolata a forma di lettera comprati nel forno con la nonna, prima di andare sulle altalene della Rocca Brancaleone. Mi ricordo di quanto mi sembrasse il momento più sereno della giornata.
Mi ricordo quando accompagnavo la mamma nel suo ufficio in centro: mi faceva giocare con questi enormi fogli a righine azzurre più grandi di me, e dalla sua scrivania vedevo un enorme parcheggio racchiuso tra muri sporchi e grandi alberi che lo proteggevano.
Mi ricordo la parete di monitor touch (parliamo degli anni ’90!) sotto ai portici di via Diaz che mostravano una specie di guida a cartoni pensata per i turisti, con un leone che ti raccontava i monumenti della città. Ne andavo pazza. Mi sembrava di stare in una città futuristica.
E, poco più in là, il portico con il pavimento fatto di linoleum nero a righine che ancora oggi è lì, a ricordarci quanto erano belli gli anni ottanta.

Me le ricordo ancora così bene, certe sensazioni che mi ha regalato Ravenna.
Poi la crisi, durante l’adolescenza.
Mi sembrava così grigia, appannata, desolata, insensata.
I miei pomeriggi li passavo a casa della mia migliore amica, sul divano a guardare senza sosta tutti i film di Al Pacino che davano sui canali via cavo, o in quei due negozietti di vestiti usati che c’erano, vent’anni prima che andasse di moda parlando di sostenibilità.

Fra pantaloni di velluto anni ’70 e mocassini che sapevano di naftalina, immaginavamo Londra, Roma, o anche solo Bologna. L’adrenalina delle grandi città, dei concerti, delle cose che succedevano e potevano accadere in ogni momento. La possibilità di incontrare ragazzi affascinanti e interessanti, con la faccia di un Benicio del Toro prima maniera.
Avevo un peso sul cuore, in quegli anni, perché a quell’età senti di stare sprecando la tua vita, in una città di provincia.
Senti che ti manca qualcosa, e non sai bene cosa.

Poi negli anni cambiano le priorità, quello che ti fa stare bene ogni giorno è altro. Ti accorgi della fortuna di vivere in una città in cui, bene o male, puoi arrivare ovunque sia a piedi che in bici; di una città in cui ha due teatri e tante persone di buona volontà che organizzano eventi, festival, mercatini, concerti; del fatto che, quando hai voglia di respirare forte hai la spiaggia a 10 minuti di auto, e la pineta in cui nascondere i pensieri tra le chiome dei pini marittimi.

Ti accorgi che in fondo va bene così, che lei ti ha sempre accolta e che tu devi solo imparare a guardarla con altri occhi.

Magari lasciare l’auto e girarla a piedi, per conoscerne ogni angolo come se fosse nuovo. Guardare i palazzi anni Settanta di piazza Baracca da angolazioni diverse e immaginarsi la vista da lassù, sognare le casette basse del Borgo San Rocco come fossi a Burano, sbirciare i cortili con quegli enormi alberi che fanno capolino dalle mura altissime.
Loro ci sono sempre stati, anche se io non li vedevo.

E quante cose ancora, potrei scoprire, se solo mi lasciassi stupire.

Se vuoi leggere subito, ogni volta che scrivo una cosa nuova:


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Commenti

2 risposte a “Quanto ti ho odiata, prima di amarti.”

  1. La chiave di volta è vedere sempre tutto da un’altra prospettiva o un’altra angolazione, come uno stesso paesaggio in quattro stagioni diverse.

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    1. Concordo pienamente Piero! 🙂

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