
Via Mazzini sotto un cielo biancastro, scrivevo nel 2016.
Ho cambiato molti lavori, nella mia breve vita: questo per me ha significato ricordarsi gli avvenimenti personali a seconda di dov’ero ubicata professionalmente.
Tipo: “Sì, nel 2015 lavoravo nell’agenza Ciccio Pasticcio, ora ricordo”.
Riguardo questa foto e ho un vuoto: che lavoro facevo?
E perché il lavoro ci definisce così tanto come esseri umani?
Perché ai bambini viene insegnato che da grande puoi diventare un poliziotto, un dottore, un avvocato, un pompiere e non semplicemente un essere umano adulto con tanti interessi?
Ho passato anni a interrogarmi su cosa volessi fare veramente da grande, come tutti. C’è chi nasce con un talento e lo sa capire al volo e chi non capisce niente di se stesso fino alla fine dei suoi giorni, quasi come avesse paura di scoprire che in realtà vorrebbe fare il tagliatore di verdure o il raccogli coriandoli.
Quanto è forte la paura di non ammettere quello che ci fa stare bene?
La paura di fare quello che ci va veramente di fare, anche se la società lo definisce strano-inconcepibile-inaccettabile-non consono.
La paura di non vivere il lavoro come lo vivono gli altri, che se ti diverti vuol dire che non fai un cazzo, che se ti angosci eh, benvenuto nel club, la vita è dura.
Quando parlo con i miei genitori penso sempre di non voler essere come loro, a livello lavorativo. Certo, invidio la loro fedeltà alla causa, la loro coerenza, il loro senso del dovere e del sacrificio.
Al tempo stesso non voglio in nessun modo accontentarmi o accettare che le cose siano sempre state fatte così, e che quindi sia giusto il binomio lavoro-sofferenza.
Chi lo ha deciso, scusate?
Che non si possa passare una vita in grazia e – allo stesso tempo – portarsi a casa qualche soldo per goderci quel poco di vita privata che ci rimane al di fuori? O che sul lavoro non possiamo cambiare la giornata di uno sconosciuto in meglio?
Quante volte vi svolta la giornata entrando in un negozio e trovando un commesso simpatico e disponibile? O quando telefonate in uno studio medico, o in un qualsiasi altro ufficio, e sentite una voce sorridente e terminate la chiamata soddisfatti e in pace col mondo?
La vita è frammentata, a volte insensata: sono i gesti casuali che la rendono più bella. Quei gesti che, per almeno 10 minuti, ti fanno stare bene e riportano un senso generale al tutto: la convivenza su questo pianeta, la collaborazione per andare tutti quanti nella stessa direzione senza farci lo sgambetto.
Ero partita volendo descrivere il mio rapporto con questa via del centro storico, e alla fine mi sono ritrovata a parlare di tutt’altro.
Sarà per il prossimo post.
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